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Educarsi ed educare alla responsabilità

Prof.ssa Silvia Vegetti Finzi
Sabato 1° dicembre 2001



ETIMOLOGIA DEL TERMINE “RESPONSABILITA’”
Quando mi è stato comunicato il titolo di questa conferenza, "Educarsi ed educare alla responsabilità", come fanno spesso gli oratori quando sono un po’ preoccupati per il compito che li attende, sono andata a prendere il dizionario etimologico per cercarvi la voce "responsabilità". Ho trovato che deriva dal latino responsare, ossia rispondere, ed è così definita: "essere consapevoli delle conseguenze delle proprie condotte". Mi è sembrato un po’ poco, tanto più che nella mia mente, assai fantasiosa, girava un’altra etimologia che gli antichi avrebbero chiamato "varroniana", vale a dire sbagliata, immaginaria, che collegava responsabilità con res, "le cose", e con pons, pondus "il peso delle cose". Mi ero fatta l’idea che volesse dire: "saper sopportare il peso delle cose". Un’etimologia del tutto scorretta, che non ha nessun fondamento ma, a dispetto della linguistica, continua a sembrarmi più pregnante di quella del dizionario, così generica, così vaga da dimenticare il coinvolgimento del corpo, l'impegno anche fisico che la responsabilità richiede a chi l'esercita, così come trascura la dimensione sociale che l'attraversa.

RESPONSABILITA’ E CONSEGUENZE
A ben vedere non ad ogni azione ci poniamo il problema della responsabilità. Se così fosse sarebbe una merce inflazionata. Vi è un atteggiamento di responsabilità costante che è proprio dell'adulto di fronte a un bambino, quando spetta a noi proteggerlo da qualsiasi pericolo. Ma la responsabilità come giudizio morale viene evocata soltanto quando ci troviamo di fronte a scelte importanti, ad aut-aut, dove, in caso di decisione sbagliata, ci saranno conseguenze pesanti in termini di dolore, in termini di sofferenza nostra e altrui. Dobbiamo dare al termine "responsabilità" la pregnanza che gli è propria altrimenti rischiamo di diluirlo nella molteplicità, per fortuna abitudinaria, di tante condotte. Credo che responsabilità inerisca a qualsiasi agire in quanto dovrei essere sempre in grado di rispondere delle mie azioni. Ma in senso stretto la responsabilità è un attributo della libertà, la condizione perchè la libertà non si trasformi in arbitrio, in dominio del più forte. Così intesa la responsabilità è un limite. Ma oltre che alla responsabilità passiva, di non fare, vi è la responsabilità attiva di prendersi cura di sé e degli altri. Un sentimento che nasce dal superamento dell'egoismo e dell'egocentrismo infantili, quando si capisce che la felicità non è una condizione solitaria perchè tutti gli uomini sono interconnessi tra di loro e l'azione che io compio può espandersi nello spazio e prolungarsi nel tempo ben al di là dei confini della mia individualità. Come dicevo, vi è responsabilità soltanto quando vi è un esercizio di libertà, quando siamo chiamati a scegliere, quando siamo posti di fronte a due o più alternative e ci prendiamo il carico di indicarne una. In questo caso possiamo imporre il nostro volere con l’autorità, oppure possiamo indurlo con la nostra capacità di convinzione, persuadendo gli altri ad assumere il nostro punto di vista, a seguirci lungo quella strada. Chi sceglie responsabilmente si fa carico di un rischio, si impegna a rispondere a eventuali conseguenze negative. Non si sa ancora se ci saranno, ci si augura che non ci siano ma, in ogni caso, il responsabile rimane per tutti un punto di riferimento.

RESPONSABILITA’ COME IMPEGNO CONTRATTO CON LA SOCIETA
Tale impegno un tempo veniva preso con la società: chiunque avesse una responsabilità doveva renderne conto pubblicamente alla comunità nella quale viveva. In questo senso l'impianto della tragedia greca è quanto mai eloquente. I protagonisti del dramma sono infatti circondati dal coro. Il coro sta intorno agli attori, contiene i loro conflitti e li obiettiva ripetendoli e commentandoli in una dimensione più ampia rispetto al luogo della famiglia in cui le vicende si svolgono. Il coro ha la funzione di testimoniare la verità, l’impegno che i personaggi prendono, non solo nella reciproca contesa, ma di fronte all’Altro, alla comunità, alla città, alla polis. Ora, questa è, per eccellenza, l’etica tradizionale, dove le conseguenze, le disposizioni, le intenzioni e le azioni vengono esplicitate. Non c'è un 'non detto' sulla scena tragica, tutti sono consapevoli e responsabili delle loro parole. Quella antica è un’etica estrinseca, nella quale la società impone delle norme, delle figure di riferimento, dei modi e degli stili ben precisi e, chi non si vi si attiene, deve renderne conto alla comunità dalla quale dipende. Nelle società pre-moderne, il vincolo vitale tra l’individuo e la comunità è accettato da tutti. Si tratta di una morale condivisa fatta di ingiunzioni, autorevoli o autoritarie, cui sono collegati premi e punizioni. Ciascuno occupa un posto preciso nella società e la morale è una conseguenza della sua collocazione. Può attenersi alle norme o violarle ma non sta a lui o a lei discuterle perchè la morale è collettiva, non individuale. In questo senso lo snodo tra la morale tradizionale e quella moderna risiede nella famosa frase di Kant: il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me. Tuttavia il sistema collettivo vige ancora nelle società pre-moderne, che tuttora esistono. In questi casi la comunità indica delle condotte ottimali, offre come esempio delle personalità ideali, degli stili di vita prefigurati ai quali gli individui debbono attenersi.

RIPRESA DEL LIBRO “CUORE”: COME PRESENTAZIONE DI MODELLI PRECISI DI COMPORTAMENTO
Riflettiamo per un momento alla ripresa, proprio in questi giorni, in televisione, ma anche attraverso la diffusione libraria, del libro "Cuore" di De Amicis, un libro che era ormai dimenticato e che invece è diventato oggetto di nostalgia. Ma perché mai siamo nostalgici del libro "Cuore": di Garrone, della maestrina dalla penna rossa, di quei personaggi così lontani dalla nostra vita? Perché erano emblematici, icone del bene e del male. In questo modo si diceva a una generazione di bambini: "Agite così"o "Non agite così". Ricordo i libri della mia infanzia: erano pieni di esempi positivi e negativi. Forse erano più frequenti i personaggi negativi, quelli da non seguire, come Gian Burrasca, Pinocchio, Bibì e Bibò, Pierino Porcospino, figure di bambini cattivi ai quali immedesimarsi per poi rifuggire spaventati dalle punizioni alle quali andavano incontro. Ora queste figure di bambini cattivi non ci sono più, il mondo si è fatto più complesso, si è capito che non esistono i tutti buoni e i tutti cattivi, però questo produce una certa confusione, una certa difficoltà di orientamento. Di qui il rimpianto per la morale semplice e un po' manichea, rimpianto testimoniato dal ritorno tra noi del libro "Cuore". Quella del passato era senz’altro un’educazione repressiva ed esigente, ma anche capace di guida e di sostegno. La sua morale era riduttiva ma coerente, senza contrasti tra società, scuola e famiglia. Ora invece i ragazzi si trovano bersagliati da visioni del mondo spesso ambigue, contraddittorie, conflittuali, tra le quali è difficile scegliere. Non credo che dovremmo ritornare al passato, ma il confronto serve per evidenziare le difficoltà del presente. E ci impegna a fornire ai ragazzi i mezzi cognitivi ed emotivi per operare scelte responsabili.

SGRETOLAMENTO DEL MONDO DESCRITTO DA “CUORE”
Progressivamente però quel mondo si è sgretolato. Come nota Freud più volte, la civiltà ha prodotto una progressiva interiorizzazione del mondo: quei conflitti che una volta erano fuori di noi adesso accadono nella nostra mente, abbiamo un Foro interiore nel quale si svolgono la maggior parte dei conflitti. Il conflitto fra il bene e il male non è tanto fuori di noi, con una norma sociale, quanto dentro di noi con una norma ideale. L'Io si confronta con l'Io ideale e cerca di essere all'altezza della sfida.

RESPONSABILITA’ E SOCIETA’
Recentemente un’adultera è stata giustiziata nello stadio di Kabul. Si è trattato di un episodio orribile. Nelle fotografie si vede una montagna nera, è il burka di una donna inginocchiata, ma si fa fatica a distinguere una presenza umana. Sappiamo tuttavia che è una donna e che il militare dietro di lei le punta la rivoltella alla nuca e spara. E' la fine dell’adultera in una società dove non c’è morale interiore, conflitto psichico, ma soltanto qualche cosa che ora facciamo fatica a chiamare morale, un mero fare i conti con la società. Anche la nostra morale aveva, sino a mezzo secolo fa, non pochi elementi arcaici. Però senza quella ferocia, visto che la nostra è una società che deriva dal mondo greco, ed è pertanto rispettosa del corpo umano.
Tuttavia, con le dovute differenze, qualcosa di simile avveniva anche in Italia. Ho trovato che nel 1956, una sentenza della Corte Costituzionale assolveva un marito violento che aveva percosso la moglie, con questa sentenza: "Il capofamiglia è depositario di un potere di correzione e disciplina su tutta la compagine familiare". Pensate che termine orribile, da gergo militare "compagine familiare", nessuno di noi lo userebbe più, eppure questa modalità guerriera di governare la famiglia è del 1956. Allora spettava al padre l’esercizio della patria potestà e nel vecchio codice si contemplavano soltanto gli eccessi come motivo di pena, ma la correzione in se stessa era considerata legittima, anzi opportuna. Nella società patriarcale l'autorità appartiene soltanto al capofamiglia, sua la responsabilità della famiglia, della moglie, dei figli minori. Ma l'autorità incondizionata è in realtà autoritarismo.

IL PESO DELLA RESPONSABILITA’
In quegli anni il medico decideva della vita e della morte del paziente, dei percorsi terapeutici, dei mezzi da utilizzare, dei fini da raggiungere. Non vigeva certo il consenso informato con cui ora si rimette a noi pazienti la responsabilità della nostra vita. Pensate quante responsabilità riceviamo nella misura in cui, entro certi limiti, possiamo e dobbiamo scegliere la scuola, il lavoro, il futuro. Basta pensare, per esempio, alle gestanti: quante scelte sono attribuite a loro! "Vuole fare questo esame pre-natale o meno?", "Decida Lei", "Vuole partorire in un modo o in un altro?", "Veda lei". Ad ogni decisione è collegato un carico di angoscia molto forte. E' impossibile non prefigurare gli esiti negativi. Se si è chiamati a scegliere, ad assumere delle responsabilità, significa che non tutto andrà necessariamente bene, che le cose possono anche andare male e che la responsabilità e, perché no, la colpa, sarà nostra. L'ambito del destino si assottiglia a favore della responsabilità, con tutto il suo corollario di emozioni. La nostra mente è sempre più affollata di ipotesi negative, evocate dalla responsabilità della scelta. Si dice infatti normalmente nel linguaggio comune portare "il peso della responsabilità". Certo si tratta di un onore, ma anche di un onere.

RIFORMA DEL DIRITTO DI FAMIGLIA E RESPONSABILITA’ DEI CONIUGI
Nel 1975, una data storica per la nostra società, il nuovo codice di famiglia dispone che i due coniugi sono uguali tra di loro, hanno pari diritti e doveri e l’autorità familiare spetta all’uno e all’altro. Questa equanimità fa venire meno, una volta per tutte, la tradizionale costituzione "monarchica" della famiglia, la struttura verticistica in cui tutto il potere apparteneva al padre di famiglia, il quale tra l’altro era anche l’unico a detenere pieni diritti di cittadinanza. Nell’antico sistema elettorale infatti, il potere del voto spettava soltanto al cittadino maschio adulto, acculturato e abbiente: potere e responsabilità andavano di pari passo. Ora abbiamo una suddivisione dei poteri e delle responsabilità che spesso ci trova impreparati: di qui, ancora una volta, la necessità di un’educazione alla responsabilità. Il mutamento principale nell’ambito della famiglia è stato quello delle libertà femminili: la donna non è più sottomessa, non è più una figura passiva, votata all'obbedienza, tanto meno un oggetto di correzione. Il marito non ha più il diritto di punirla in quanto ha di fronte una persona né minorenne né minorata, ma un soggetto che, se è il caso, si corregge da sé.

RESPONSABILITA’ SIGNIFICA RISPONDERE ALLA PROPRIA COSCIENZA
La responsabilità è innanzitutto quella di rispondere a se stessi, alla propria coscienza: non si può tradire nessuno, meno che mai si possono tradire i propri principi. La cosa più importante non è tanto deludere la comunità, anche perché viviamo nell’indifferenza della comunità, quanto venir meno alle esigenze della nostra coscienza. Ritornando alla questione dell’adulterio, pensate a come fu crocifissa, sempre negli anni cinquanta, la Dama Bianca di Coppi, oppure Mina, che aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio: fu uno scandalo, ne parlarono i giornali per mesi. Invece adesso ciascuno di noi risponde delle condotte private alla sua coscienza o alle persone che gli sono accanto, senza che la società si senta in diritto di lanciare anatemi. Se non si lanciano anatemi, e questo è giusto, non si indicano però neanche percorsi da seguire. Non si dice che cosa è bene, che cosa è male, che cosa è giusto e che cosa è ingiusto. Per quanto riguarda la morale, o meglio l'etica, se ci riferiamo ai valori ultimi, ai valori sommi, ci troviamo tutti d’accordo. Non vi è nessuno che dica: "sono contrario alla libertà", "sono contrario alla giustizia", "detesto la fratellanza". Ma, se non c’è nessuno contrario, vuol dire che, in fondo, l’argomento è vuoto. Sino allo scorso anno ho fatto parte del Comitato nazionale di bioetica e mi sono resa conto che non vale la pena di impostare la discussione su principi astratti e formali. Sulle "questioni ultime" siamo tutti d’accordo. Le differenze vertono piuttosto sui valori intermedi, su come realizzare le libertà, l'equità, l’indipendenza, i diritti di cittadinanza in concreto, qui e ora. Non è tanto l'ideale assoluto su cui ci si deve confrontare, quanto sulla realizzazione del bene comune, nella sfera che ci coinvolge direttamente, quella delle prese di responsabilità quotidiane legate all'esistenza, alle relazioni, alla realizzazione del proprio e altrui percorso di vita. Questo è il vero ambito dei conflitti ed è in questa dimensione che ci dobbiamo impegnare.

MUTAZIONI NELLA STRUTTURA DELLA FAMIGLIA
Mi sembra che nella vita di ognuno siano tanti i momenti di assunzione di responsabilità ma, per semplicità, ne ho individuati tre. Innanzi tutto vorrei notare che manca ormai un modello forte di famiglia. Le tipologie familiari sono molte, tanto che conviene utilizzare il termine "famiglie" piuttosto che "famiglia". Nella società attuale convivono più modelli: la famiglia tradizionale, la famiglia nucleare (composta da padre, madre, figli), le famiglie di fatto, quelle separate; quelle che si sono successivamente ricomposte; le famiglie costituite da un solo genitore con figlio o figli a carico. In certi casi vi è un adulto che non ha mai costruito una famiglia oppure è rimasto solo dopo la separazione oppure è un anziano sopravvissuto ai propri congiunti. Inoltre vi sono famiglie che hanno adottato bambini, anche provenienti da paesi lontani, o ne hanno accolti in affidamento. In un certo senso sono famiglie anche le coppie formate da una persona anziana convivente con un collaboratore domestico, sovente extracomunitario. Una figura nuova che è molto di più del cameriere o della cameriera, quasi un parente. Spesso questi addetti all'accudimento di un anziano o di un malato sono vestiti come i figli degli assistiti. Non è un rapporto subalterno quello che lega la persona giovane a quella che giovane non è più. Basta vederli camminare per la strada per capire che si è stabilità un'intesa che va al di là della prestazione professionale, circola tra di loro un’intensità affettiva, un’intimità corporea che sicuramente non si basano esclusivamente sul denaro. Una volta, nella società contadina, prevalevano le famiglie estese dove sotto lo stesso tetto convivevano tre-quattro generazioni e altre figure collaterali, come i cugini. La famiglia nucleare diviene dominante in Italia soltanto nel dopoguerra, soprattutto in città. Tuttavia la famiglia modello, che noi abbiamo nella mente, nella fantasia, quella che viene più rappresentata artisticamente, è la famiglia borghese, composta di padre, madre, figli.

PSICOANALISI E CHIESA DIFENDONO LA FAMIGLIA
Ora sulla difesa di questo tipo di famiglia convergono due vettori tra loro apparentemente molto lontani. Difendono la famiglia la Chiesa cattolica, la quale vede nel nucleo padre-madre-figli il modello di convivenza tra i sessi e le generazioni, nonché il modo migliore per crescere i figli. E la Psicoanalisi, che è stata per molto tempo denunciata dalla Chiesa come pansessuale, come amorale. Invece in questo momento convergono, sullo stesso obiettivo, un atteggiamento confessionale ed uno laico nell' intento di difendere, come essenziale alla sopravvivenza dell'individuo e della società, la famiglia, in particolare quella nucleare. Il modo di procedere è tuttavia diverso. Mentre la cultura cattolica esplicita i valori positivi della famiglia, quella psicoanalitica si limita a sottolineare i danni e le incognite della sua distruzione. Da una parte troviamo l'esortazione, dall'altra la dissuasione ma l'effetto è lo stesso. Per la Chiesa (che recepisce l'etica aristotelica), la famiglia è la cellula naturale della società, per la Psicoanalisi rappresenta piuttosto la struttura simbolica dell'individuo e della comunità. Il secolare sondaggio dell'inconscio riconosce nella famiglia "l’architrave della nostra mente". Il suo svolgimento inconscio corrisponde alla formula narrativa che Freud ha tratto dalla vicenda di Edipo, così come viene rappresentata nella treagedia di Sofocle. Geometricamente viene rappresentata come un triangolo equilatero dove in un vertice c’è il padre, nell’altro la madre, nell’altro figli. Ognuno di noi ha nell'immaginario questa triangolazione ed è qui che si costituisce la sua identità. Ora, anche se la società muta e coesistono molti modelli di famiglia, si deve comunque presupporre la priorità mentale della forma semplice perché i tempi dell'inconscio non corrispondono a quelli della società. Per cui anche il bambino che non ha mai conosciuto suo padre, cercherà comunque una figura paterna, sentirà che vi è un posto, dentro e fuori di sé, che è rimasto vuoto e che deve essere occupato. Vi è una "forma" a priori che attende di essere realizzata da figure reali e da scambi affettivi concreti. La Chiesa cattolica colloca il valore della famiglia nelle relazioni che connettono padre, madre e figlio, nell'amore reciproco che circola tra di loro. La psicoanalisi, invece, riconosce che rapporti passionali, di
amore e di odio, legano tra di loro i membri della stessa famiglia, ma fissa il significato e il valore di questi rapporti soprattutto nella loro interdizione. Ciò che rende essenziale crescere nella famiglia è che nel suo ambito si realizza il divieto dell’incesto. Il desiderio del bambino (così come il nostro desiderio inconscio) è di avere tutto, di potere tutto, senza attese, senza mediazioni. Il desiderio inconscio è onnipotente. L'onnipotenza del Principio di piacere (voglio tutto subito) si mette in gioco proprio nei primi anni di vita, nelle prime relazioni familiari, quando il figlio vorrebbe amare il padre, amare la madre, essere amato dall’uno e dall’altro, prendere il posto tra i due nel letto coniugale. E' qui che il desiderio incontra il primo divieto, tacito ma assoluto: non si può amare la madre, non si può uccidere il padre. Per la bambina si tratta di non considerarsi la donna del padre e di non diventare per questo nemica della propria madre. Amore e odio si sperimentano innanzitutto in famiglia, dai tre ai sei anni, quando il corpo è troppo immaturo per realizzare i suoi intenti ma la fantasia può galoppare liberamente. Ed è su questa scena che calano la Legge, il divieto, la colpa, la pena con i loro effetti di strutturazione.

IMPORTANZA DEL DIVIETO NELLA CRESCITA DEL BAMBINO
Il passaggio da una situazione animale, perché la promiscuità è tipicamente animale, a una situazione umana, per la Psicoanalisi è dovuto all’incontro con una forma di divieto, con un ostacolo insuperabile, quello appunto del divieto dell'incesto. Un divieto che vale per i figli ma anche per i genitori. Pertanto la madre costituisce per maschi e femmine l’oggetto più amato, il primo oggetto d’amore e al tempo stesso quello proibito per eccellenza. Tutto ci sarà concesso, è il paradosso con cui i figli devono confrontarsi: potrai trovare un partner tra chiunque, fuorché tra le persone che ti sono state più vicine, quelle che hai amato per prime, quelle con cui hai avuto più intimità corporea. Nella famiglia le persone più prossime devono diventare le più lontane. Ecco allora che il desiderio onnipotente dell’inconscio si sottomette alla legge e la Legge delle leggi è il divieto dell’incesto. Questo è essenziale per la psicoanalisi: che il bambino incontri la forma del divieto, non un divieto astratto, come "Non uccidere", ma "Tu non ucciderai il tuo rivale". In tal modo la Legge si incide nella sua mente attraverso un’esperienza personale, corporea e mentale al tempo stesso, fatta di pulsioni, di emozioni e di affetti, un'impossibilità che il bambino vive nella sua pulsionalità, nella sua immaginazione, nel suo amore, nel suo odio, qualche cosa che si radica in lui e che lo rende umano attraverso la forma della proibizione, dell’inibizione, del limite.

PASSAGGIO DALLA FAMIGLIA CHIUSA ALLA FAMIGLIA APERTA TRAMITE IL MATRIMONIO
Poiché l’oggetto d’amore non lo si potrà trovare all’interno della famiglia, sarà necessario passare dall’endogamia, cioè dalla famiglia che basta a se stessa, all'esogamia, alla famiglia che si apre alla ricerca di un’altra famiglia con cui stabilire un patto di alleanza, basato sullo scambio dei figli: dammi una figlia che ti dò un figlio. Ora lo scambio matrimoniale non avviene con le stesse modalità di un tempo. I due partners si scelgono liberamente. Ma l'effetto sociale è il medesimo. Si stabilisce infatti, come effetto del matrimonio, una parentela più ampia, più astratta di quella naturale, fondata sulla consanguineità, un patto tra famiglie, biologicamente estranee, che sottoscrivono tra di loro un vincolo di alleanza. Questa è la prima, più originaria forma di politica. Se non c’è una struttura connettiva pre-politica, diciamo di base, non si costituisce neppure una società. La polis si fonda su una contrattualità che non è corporea ma simbolica. Al momento del matrimonio si assume un impegno molto forte, che va al di là delle intenzioni dei due contraenti: due lignaggi si congiungono per dare luogo a una nuova famiglia, una famiglia che è volutamente di estranei biologici, in quanto la consanguineità ostacola la coniugalità.

L’APPARIRE DEL “SACRO” ANCHE NEL MATRIMONIO LAICO
Quando ho scritto il libro "Il romanzo della famiglia. Ragioni e passioni del vivere insieme" (1990) ho insistito molto sul valore del "sì" al momento delle nozze. In un certo senso il matrimonio è, come abbiamo visto, un patto simbolico che si stipula liberamente tra un uomo e una donna, intenzionati a vivere insieme. Ma il termine stesso "matrimonio" ha una radice in mater, che rinvia alla maternità, alla filiazione. La consanguineità che manca ai coniugi si introduce successivamente attraverso i figli per cui la famiglia nasce simbolica e diviene naturale. Nella concezione tradizionale il nucleo del matrimonio è la fedeltà tra i due sposi: rimanere vicini nella buona e nella cattiva sorte, restare uniti per sempre. Mi sembrava che quel "sì per sempre" fosse proprio quello di cui ci parlava Cristina Mondello, un’incidenza del sacro, perché tutte le volte in cui noi diciamo solennemente "per sempre o mai più" si spezza il tempo della quotidianità: si introduce nel suo continuo fluire una violenta verticalità che ferma il tempo provocando l' emergenza del sacro che, ricordo ancora una volta, non sempre è religioso. Vi è una sacralità nella nostra vita che non è necessariamente legata alla forma della ritualità o ai modi dell'istituzione. Possiamo essere invasi dal sentimento del sacro ammirando un tramonto, assistendo a un gesto di altruismo, commuovendoci per la morte di un bambino. L'incidenza del sacro è sempre possibile ma sta a noi saperla cogliere andando al di là del tempo crono-metrico dell'assillo quotidiano.

LA GENITORIALITA’: NUCLEO FORTE DELLA FAMIGLIA ATTUALE
Un tempo il matrimonio consisteva essenzialmente nel patto di coniugalità, diventare genitori andava poi da sé: una volta sposati, è chiaro che, prima o poi, sarebbero nati dei figli. Fino agli anni sessanta la scelta consisteva tra sposarsi o rimanere celibe o nubile oppure tra abbracciare la vita monastica, prendere i voti, e la vita mondana. Ma, optato per il patto coniugale, la filiazione, il diventare genitori, era l'ineludibile conseguenza dell’essere coniugi. Il mutamento su introduce con la diffusione della contraccezione sicura che consente di scegliere se e quando diventare genitori. E si conferma con la dissolubilità del matrimonio, di cui il divorzio è solo una conseguenza. Ora invece i due aspetti - coniugalità e genitorialità - un tempo strettamente connessi, non coincidono più, per lo meno non necessariamente. I giovani hanno perso la fiducia, la sicurezza che il matrimonio sia o possa essere per sempre. Vedono tante famiglie divise; tra i loro compagni di scuola sono così frequenti i figli di separati e divorziati che l’assolutezza con cui noi ci avvicinavamo al matrimonio è venuta meno. Sanno che è auspicabile, rassicurante e bello vivere insieme per tutta la vita, lo desiderano fortemente, ma dubitano di poterlo realizzare, hanno paura di non farcela. Se non è la coniugalità, in che cosa consiste ora il nucleo forte della famiglia? Non già nell'essersi sposati, bensì nella genitorialità: si è marito e moglie finché si può, finché ce la si fa, finché dura, ma si è genitori per sempre. Il tempo sacro si è spostato dai coniugi, come coppia, al loro impegno in quanto padri e madri. Un impegno di cui si conosce l'inizio ma non la fine. Anche quando i figli hanno raggiunto l'autonomia e l'indipendenza i genitori non sospendono mai la loro disponibilità.

ALL’ATTO DEL MATRIMONIO SI DOVREBBE ASSUMERE ANCHE L’IMPEGNO DI GENITORIALITA’
Ecco, ora qui, siccome siamo in tema di utopia, in conformità a queste innovazioni, esprimo l'augurio che sia modificata anche la formula del matrimonio. In che senso? Vorrei che si esplicitasse proprio questo: il fatto che si è genitori per sempre. In tal modo le nuove coppie potebbero prendere un impegno eticamente vincolante di fronte alla comunità. Un impegno che differenzia le coppie di fatto da quelle istituite. Quando una coppia celebra le proprie nozze, è di fronte alla sua città, di fronte alla comunità di appartenenza che esplicita l'assenso al patto familiare. Non a caso ci sono sempre gli invitati, non solo per far festa ma perché rappresentano il mondo collettivo che circonda quello privato e lo sostiene. Per tutte queste ragioni mi auguro che, al momento del matrimonio, religioso o civile che sia, venga esplicitamente contratto un impegno di genitorialità così come si formula un impegno di coniugalità.

MUTAMENTO DEL SIGNIFICATO DELLA PROCREZIONE
Dopo il matrimonio abbiamo spesso un periodo piuttosto lungo di semplice coniugalità, finchè nascono i figli. Figli (di solito è e rimarrà unico) che non sono più frutto del caso o della necessità, ma figli del desiderio, con tutto quello che di complesso comporta il termine "desiderio". Sono bambini voluti più che altro come realizzazione di sé, piuttosto che per rispondere alle richieste degli altri. La società non impone più ai coniugi di diventare genitori. Una volta vi era un’attesa sociale, che si rivolgeva soprattutto ai padri (per le donne si dava per scontato che desiderassero la maternità): "Allora quando diventi padre". Nel caso che le nascite tardassero, si dubitava della potenza sessuale del marito, persino della sua identità sessuale. Ora quel ricatto non si verifica più: sappiamo che sessualità e procreazione sono separate, che vi sono condotte sessuali senza procreazione e procreazioni senza sessualità, grazie alle tecnologie della fecondazione artificiale. Questo binomio si è andato divaricando; non c’è più un’attesa sociale opprimente: se una coppia non intende mettere al mondo un bambino, resterà senza figli, con buona pace di tutti. La genitorialità è essenzialmente realizzazione di sé. Per acquisire completezza, per ottenere continuità nel tempo, per superare la caducità della nostra vita, noi ci affidiamo alle generazioni future, ai figli, ai nipoti. La filiazione rappresenta, in una società secolarizzata, l'unica possibilità di perennità, se non di eternità.

ELEVATI INVESTIMENTI E ATTESE GRAVANO SUI NUOVI RAGAZZI
In questo mondo, che ha in gran parte perduta la prospettiva ultramondana, il bambino rappresenta lo snodo tra passato, presente e futuro. E' un bambino prezioso, per lo più destinato a rimanere il primo e l'ultimogenito, che nasce sempre più tardi, che importa su di sé un grande investimento, non solo affettivo ma anche economico. Una decina di anni fa è stato fatto il conto che un figlio, alla fine della scuola media superiore, è costato almeno cento milioni. Un investimento notevole che la famiglia, e attraverso la famiglia la società, fa sulle nuove generazioni. Questo comporta che vi siano pochi bambini in quanto ciascuno vuole offrire il massimo al proprio figlio. La centralità che riveste il figlio nelle nuove famiglie provoca non poche difficoltà relazionali: è più difficile prendere le distanze, lasciare che il figlio diventi se stesso, che non si senta obbligato a realizzare i genitori, che non costituisca la parte narcisistica del padre e della madre proiettata su di lui. Vi sono delle attese altissime sui nostri figli, attese che rischiano di schiacciare i ragazzi sotto il senso di inadeguatezza di fronte a esigenze eccessive, a richieste esose. Non sembra possibile, ma ancora di recente una famiglia, il padre in particolare, ha obbligato il figlio a prendere la laurea in Legge perché doveva lasciargli in eredità lo studio di famiglia, mentre il ragazzo avrebbe desiderato fare tutt’altro. Nulla di male s'intende: voleva laurearsi in Lettere, non fare il saltimbanco, voleva semplicemente laurearsi in Lettere e non ha potuto. Obbediente al volere paterno, si è laureato in Legge, dopo di che è sparito per un itinerario di vagabondaggio nel mondo di cui non si conosce il termine. In questo caso la famiglia ha preposto l'interesse all'amore per il figlio e, così facendo, lo ha sospinto fuori di sé e questo "fuori di sé" si rivela appunto in percorsi erratici che dovrebbero essere di salvezza, di ricerca, e in realtà sono di alienazione. In un certo senso accogliere, accudire, sostenere e promuovere il proprio figlio è un processo facile perchè sostenuto dall'istinto e dal narcisismo parentale. Ben più difficile risulta invece incentivare la sua emancipazione, lasciare che si allontani da noi, che divenga sé anche disattendendo ai nostri desideri. Si tratta, per i genitori, di passare dall'illusione di un figlio ideale, perfetto, non alla delusione ma alla disillusione che sola consente il riconoscimento e l'accettazione della realtà.

LA RESPONSABILITA’ NEI CONFRONTI DI UN BIMBO PICCOLO E’ ISTINTIVA
La responsabilità nei confronti di un bambino piccolo è massima: è assolutamente dipendente dai genitori, per intero affidato alla loro capacità di dedizione e di cura. Nella maggior parte dei casi, finché il bambino ha la testa grossa, rotonda, gli occhi un po’ lontani l’uno dall’altro, finché è un cucciolo, scatta immediatamente la responsabilità genitoriale. Ho lavorato per parecchi anni come consulente del Tribunale per quanto riguarda le adozioni e ho potuto constatare che, sino a quando si propone agli aspiranti genitori un bambino piccolo, - fino a sei - sette anni, ma dipende anche dalla configurazione del bambino - scatta immediatamente l’accettazione del cucciolo, la stessa peraltro che mostrano gli animali quando allattano cuccioli di specie diverse dalla propria. Quando il bambino comincia ad avere le proporzioni dell’adulto, l'accettazione, o meglio il riconoscimento come figlio, è molto più faticoso. Subentra un atteggiamento valutante, un rapporto condizionato da persona a persona, si comincia a dire: "Per certi aspetti mi va bene, per altri no". Per il cucciolo l’accoglimento è invece immediato e incondizionato. Le sue carenze (debolezze, infermità, imperfezioni) aumentano il senso di responsabilità dell'adulto e diminuiscono la sua aggressività. Anche le persone violente per temperamento hanno una istantanea, istintiva moderazione dell’aggressività in rapporto col cucciolo. Si è visto, ad esempio, che persone ipertese, predisposte all’infarto, venivano beneficate dal fatto di avere accanto a sé un cucciolo di animale; la vulnerabilità dell'animale li induceva a calmare la loro aggressività. A maggior ragione un cucciolo umano serve a moderare le persone che sono naturalmente dotate di un potenziale aggressivo particolarmente alto. Sono sempre possibili eccezioni, ma la natura sembra aver predisposto particolari accorgimenti per la difesa dei più indifesi.

PROGRESSIVA RESPONSABILIZZAZIONE DI UN FIGLIO ADOLESCENTE
Più difficile a mio avviso è invece prendersi la responsabilità di lasciare che il figlio progressivamente si allontani da noi, che divenga se stesso, diverso da come noi lo avevamo immaginato durante la gravidanza, da come lo avevamo desiderato e prefigurato durante la sua educazione. E’ difficile accettare che l'altro sia davvero un altro rispetto a noi. Nella famiglia invece si dovrebbe andare verso una progressiva ripartizione delle responsabilità. Se tutta la responsabilità è dei genitori finché il bimbo è piccolo, poco a poco si dovrebbe delegare la responsabilità al bambino stesso e, a maggior ragione, al ragazzo che cresce. Il problema consiste nella "somministrazione" di questa delega: quando, come, quanto? Non ci sono risposte valide per tutti perché ogni ragazzo è diverso dagli altri, ogni famiglia è unica, ogni relazione è irripetibile. Ciò che conta è non irrigidirsi, non negare il cambiamento, restare duttili e aperti. Questo vuol dire affrontare margini di rischio e pochi di noi sono disposti ad affrontare il rischio perché significa che potrebbe accadere qualcosa di male a chi più amiamo. Accettare che il figlio vada da solo per la strada, che frequenti un compagno che non apprezziamo, lasciare che compri la motoretta, che vada in vacanza col sacco a pelo, che occupi la scuola: sono piccole responsabilità che lo conducono all'autonomia. Dice Françoise Dolto: "Senza rischio non si cresce". Se noi volessimo togliere tutti i rischi ai nostri figli, li legheremmo nel letto ma non li faremmo vivere. La presenza in casa di un figlio adolescente pone continui aut-aut, ansiogeni indubbiamente, in cui tante volte i coniugi fanno il gioco delle parti. Mentre quello più materno dice: "Proteggiamolo", "Rimani", "Non farlo", quello più paterno, e non necessariamente sono femminile e maschile queste due figure, dice: "Vai", "Rischia", "Mettiti alla prova". Paradigmatiche risultano, in tal senso, le discussioni circa l'acquisto o meno del primo motorino. Di solito la madre evoca tutti i possibili incidenti, ovviamente spaventosi, e il padre interviene: "Ma no, ce l’ hanno tutti i suoi amici, lascia che provi, che vada con gli altri". Oppure, intorno alle uscite serali in villeggiatura. Il padre dice: "Ma certo che deve uscire la sera con la sua compagnia!". La madre vorrebbe invece sapere dove, con chi va, quando torna, che cosa fa. Se è una figlia femmina si propone di accompagnarla, fissa delle ore impossibili per il rientro e così via. Ma dal gioco delle parti, nel dialogo delle responsabilità, nel dubbio tra il tenere stretto e il lasciar andare, i ragazzi traggono il meglio perché si sentono al tempo stesso protetti e incentivati. Ciò che non tollerano è l'autoritarismo (si fa così perché lo dico io!), la contraddizione (oggi sì, domani no) e, molto più insidioso, il disinteresse (fai quel che ti pare perché anch'io voglio fare ciò che voglio).

ATTEGGIAMENTI DIFFERENTI DELLE FAMIGLIE VERSO I FIGLI ADOLESCENTI
E' difficile avvedersi che i genitori non sono veramente tali quando le responsabilità vengono del tutto evitate, quando si manifesta il laissez-faire, l’indulgenza a priori che è disinteresse, non è amore. Se i figli fanno tutto quello che vogliono si evitano i conflitti, ed è comodo per tutti. Per certi aspetti è indispensabile minimizzare i motivi di scontro. Il tempo da trascorrere in famiglia è diventato scarso: molti genitori tornano a casa alle otto di sera e dicono agli educatori che li spronano ad essere più esigenti: "Ma cosa volete, che apriamo le ostilità con i figli, che ci mettiamo a discutere con loro, a sgridarli, a punirli? Ma cerchiamo piuttosto di trascorrere in pace e in armonia queste poche ore!" Ricordo che mia madre, nella nostra educazione, fece gran uso dei musi: ci teneva il muso per due o tre giorni, ci obbligava quindi a fare un esame di coscienza, a riprometterci di non trasgredire più; ma come fa a stare sulle sue una madre che sta col proprio figlio un’ora o due ore? E’ chiaro che cercherà di rendere gradevole questo breve intervallo. La famiglia corta è, per forza di cose, una famiglia poco conflittuale, perché per esercitare il conflitto ci vuole tempo: bisogna dare tempo al tempo. Quella attuale è una famiglia che tende ad eludere il conflitto e a lasciare il ragazzo libero di scegliere. Ma spesso scegliere è difficile. Altre volte abbiamo invece la famiglia intransigente: quella che dice sempre no. Sono preoccupata per titoli di libri rivolti ai genitori, quali "I no che aiutano a crescere", "Se mi ami dimmi di no!". Credo francamente che i "sì" facciano crescere perché spalancano le porte dell'esperienza ma i sì hanno senso soltanto se sono in opposizione ai no. Il motore della crescita è nel "sì", non nel "no" ma entrambe le formulazioni non solo assolute ma relative. Tra il sì e il no, entrambi ellittici e perentori, meglio ricorrere al più articolato: "sì ma". Il "no" puro vale per il bambino piccolo, che non sa quel che si fa: vuole toccare il fuoco, spenzolarsi dal davanzale, bagnarsi le scarpe nelle pozzanghere e così via. Ma il ragazzo di solito chiede delle cose che, per lui, sono legittime, magari premature, ma è difficile che chieda delle cose completamente sbagliate. Sono premature per noi, soprattutto per la nostra valutazione. Comunque la risposta giusta secondo me non è né sì né no, ma una valutazione ponderata dei pro e dei contro. "Vediamo un po' quando potrai ottenere ciò che desideri", "Potrebbe essere alla fine dell’anno", oppure "Se sarai promosso". "Vuoi la motoretta? Risparmia i soldi", "Quando raggiungerai la somma necessaria, potresti comprarla usata"; "Se aiuti lo zio, ti darà una paghetta che potrai mettere da parte sino a raggiungere la somma necessaria" e così via. In mano ai ragazzini le contrattazioni durano mesi, la scelta del veicolo diventa un gioco collettivo. Se lasciamo fare a loro, passa molto tempo. Se invece diciamo di no, eleviamo un ostacolo che devono affrontare per affermare se stessi. Sono controproducenti sia l'intransigenza, che rivela la mancata comprensione delle esigenze dei ragazzi, sia la falsa, superficiale concessione di autonomia, che in realtà è disinteresse. Una terza soluzione, la peggiore di tutte, è la contraddizione, per cui ci sono dei giorni in cui i ragazzi possono fare quello che vogliono perché i genitori hanno la testa altrove; altri invece in cui vengono obbligati a condotte prescritte autoritariamente perché così va in quel momento. Questi sono gli atteggiamenti più sconcertanti per i figli, che si trovano continuamente a cambiare di regime familiare e che, in mancanza di regole e di principi, navigano a vista dicendosi: "Chissà oggi come andrà?", "Chissà oggi quale clima mi aspetterà a casa ?". L’importante invece è che ci sia un confronto, un dialogo, e che, a costo di sembrare antipatici, i genitori facciano i genitori.

I CONFLITTI COME OCCASIONE DI CRESCITA
Una delle cose che mi hanno detto i ragazzi quando ho discusso nelle scuole il libro che ho scritto con Anna Maria Battistin, "I nuovi adolescenti. L’età incerta" è stata questa: noi non vogliamo che i nostri genitori siano nostri amici. Sentirete molte volte padri che dichiarano: "Sono il miglior amico di mio figlio", ma non sentirete mai un figlio dire:
"Mio padre è il mio miglior amico". Il genitore ha la responsabilità di mantenere la posizione, anche quando comporta di accettare il disamore, persino di essere detestati, perché in certi momenti sappiamo benissimo che il ragazzo che si chiude in camera sbattendo la porta ci odia e vorrebbe che non fossimo mai esistiti. Ma il vero amore resiste agli attacchi di rabbia e, come l'araba fenice, rinasce dalle sue ceneri. Non dobbiamo pensare che la responsabilità sia sempre nell’ordine dei buoni sentimenti: esistono il conflitto, lo scontro, la ribellione, ma esiste anche la capacità di elaborare il conflitto, di ricominciare su basi più elevate, perché quando un conflitto è stato elaborato bene non si torna al punto di partenza, ma si costruisce una nuova, più avanzata piattaforma, dalla quale procedere in avanti. Sia comunque chiaro che non esiste il genitore perfetto, ma solo il genitore che sa apprendere dall'esperienza, far tesoro dei suoi stessi errori. Solo i genitori che sanno errare senza negare i torti che hanno inferto ai figli e senza cadere nella depressione per il fatto di non essere perfetti possono insegnare ai ragazzi che crescere significa anche sbagliare e che, in ogni caso, si può rimediare e ricominciare.

I GENITORI DEVONO AIUTARE I FIGLI A DIVENTARE ADULTI
Ma i ragazzi non costituiscono un intelocutore sempre uguale a se stesso. Non a caso si parla di "età evolutiva". Da piccoli sono totalmente dipendenti da noi, il neonato è totalmente affidato ad altri per la sua stessa sopravvivenza, ci deve essere una persona che si prende cura di lui continuamente. Chi ha svolto una funzione materna, non necessariamente la madre naturale, sa che il neonato chiede di essere pensato sempre, di passare dal grembo alla mente: ci vuole una figura materna che lo contenga, che non stacchi mai il cordone psichico. Progressivamente il bambino cammina con i propri piedi e procede con i propri pensieri ma per raggiungere l'autonomia ha bisogno di passare attraverso una relazione intensa ed esclusiva. Madre è colei che lo contiene nel corpo e nella mente ma che, a tempo debito, lo aiuta a camminare, che lo allontana da sé, pur rimanendo pronta a riceverlo quando il bambino ritorna sui suoi passi e le chiede un nuovo rifornimento affettivo. Osservate come i bambini affrontano i primi passi: si buttano con la testa avanti, velocemente, con un’audacia incredibile, poi a un certo punto si spaventano, cadono a terra, si mettono a piangere oppure tornano indietro, cacciano la testa nella gonna della madre, chiedondole sicurezza e conforto. Questa è la modalità con cui il bambino piccolo conquista autonomia rispetto al corpo della madre, una modalità emblematica poi dell’agire adolescenziale. Anche l'adolescente fa un salto in avanti e poi magari retrocede: è tutto prove ed errori, un continuo andare avanti e indietro. Allora, se il genitore vuole essere coerente, non può rivolgere all'adolescente sempre le stesse richieste, senza prendere atto dei suoi cambiamenti. Guai schiacciare l’adolescente sulla sua incoerenza, come fosse un peccato mortale, proprio nel momento in cui sta saggiando le sue forze, sta tentando, si sta mettendo alla prova. Di fronte a condotte contradditorie, meglio chiedergli di riflettere: "Che cosa trovi sia meglio, che cosa pensi sia più utile a te, alla tua crescita?". Secondo la grande psicoanalista francese Françoise Dolto: "Noi non dobbiamo fare di tutto perché i nostri figli siano felici. Se lo sono, tanto meglio, ma il nostro compito di genitori è quello di aiutarli a crescere, a diventare adulti; il che significa anche provare sentimenti di infelicità, di dolore, sperimentare emozioni negative, come la rabbia, la paura, l’invidia, la gelosia. Occorre affrontare le passioni per imparare a moderarle, a viverle. Siamo invece portati, per proteggerli, a chiudere i ragazzi in una riserva indiana". Mi diceva recentemente la madre di una bambina di nove anni: "Sa, mia figlia ha visto in televisione crollare le torri di New York; io non volevo che si spaventasse e le ho detto: "Eleonora, è tutto finto, una cosa non vera, non ci crederai mica?". Ora vi pare che questa madre abbia messo al riparo la sua bambina? Una bambina di nove anni è capacissima di vivere la paura e di superarla, di emergere dall'angoscia. Forse avrà pensato: "Oddio, adesso arriva un missile anche sopra casa mia", perché i bambini sono egocentrici e si ritengono il centro del mondo. Può aver fantasticato: "Ieri è caduto là e stanotte piomberà sul mio lettino" ed essersi spaventata per questa eventualità. Ma la paura fa parte della crescita. Se neghiamo la realtà dell' evento, lasciamo l'emozione senza giustificazione, senza aggancio con la vita, pura ansia fluttuante. Il rischio dei nostri figli di prendere il mondo virtuale come reale viene confermato da posizioni apparentemente sane e utili assunte dai genitori, in realtà disastrose. Derealizzare la catastrofe di New York è stata secondo me una presa di posizione molto grave nei confronti di questa bambina: è vero, le torri sono crollate; causando terrore e morte, è vero, ci sono delle cause e degli effetti spaventosi ma dobbiamo cercare di capire e di evitare che tutto ciò possa ripetersi. A questo punto si può passare dall'esperienza personale al mondo, l’importante è che le responsabilità della famiglia si amplino alle responsabilità della società, dell'umanità, che la famiglia non balbetti impaurita, continuamente incerta se confermare o negare l'Io del bambino.

BISOGNA RICONOSCERE LA DIPENDENZA DAGLI ALTRI
Partendo dalla completa dipendenza dei nostri neonati dalle cure e dalla dedizione di un adulto (di solito la madre), Winnicott dice una cosa molto importante: i nostri figli crescono, diventano a loro volta padri e madri, ma crescono –sottolinea- nell’assoluta inconsapevolezza del debito che hanno contratto con una figura materna. Deve esserci stata una figura, una persona che nei primi tempi si è fatta assolutamente carico di loro, che ha avuto nei loro confronti una dedizione totale, ma tutto questo non viene riconosciuto e nessuno formula un 'grazie' nei confronti di chi ci ha permesso di sopravvivere. Il mancato riconoscimento, l'incapacità di dire grazie a una figura materna, non di averci messi al mondo – specifica Winnicott -, ma di averci accuditi quando non saremmo stati in grado di cavarcela da soli, fa sì che gli uomini abbiano paura delle donne, che vi sia paura dentro di noi. Là dove si è invece capaci di ammettere la dipendenza, di riconoscere di essere stati un tempo assolutamente dipendenti da un altro, subentra la gratitudine e in quel momento –dice Winnicott- viene meno la paura. Queste osservazioni sono così profonde che riusciamo a capirle fino a un certo punto, ma credo che Winnicott abbia ragione: molte volte non ammettere la propria dipendenza, voler essere assolutamente, totalmente indipendenti dall’altro è una forma di paura. In realtà noi siamo tutti dipendenti reciprocamente, siamo tutti interdipendenti, come ricorda Hemingway nell'esergo di "Per chi suona la campana?", dove (cito a memoria) si dice: noi non siamo un’isola, l’umanità è un continente che ci comprende per cui non chiedere "Per chi suona la campana?", "Essa suona per te". Riconoscere questo vuol dire avere già una buona apertura politica. Il prevalere della personalità narcisistica, che non sa dire grazie, che basta a se stessa, che non ha bisogno di nessuno, che pensa di non aver avuto né madre né padre, rende sempre più difficili i rapporti sociali.

CARATTERISTICHE DEL BAMBINO DURANTE L’INFANZIA
Il bambino piccolo avrebbe il compito, debitamente aiutato, di ammettere la dipendenza e di dire grazie. Il bambino in età scolare, in età di latenza, è un bambino che non è più così dipendente, ma soprattutto accondiscendente: è un bambino che cerca di vivere in conformità agli ideali degli adulti. Va benissimo che cerchi di essere il bravo bambino, di agire come vogliono la mamma, il papà, la maestra. Tipico della scuola elementare è un bambino tranquillo e, quando questo gli riesce, un bambino appagato. Psicoanaliticamente si chiama età di latenza proprio perché è un’epoca di bonaccia, quella dai sei ai dieci anni, interposta tra le tempeste della prima infanzia e quelle successive dell’adolescenza. Come nota Melanie Klein, guardate le foto delle elementari, i bambini si assomigliano tutti, sono proprio omogenei: le femmine assomigliano alle femmine, i maschi ai maschi. Nella prima infanzia erano molto diversi, nell’adolescenza riprenderanno a differenziarsi. Ma vi è in questo periodo una tranquilla appartenenza del bambino al mondo dei bambini. Pensate ai disegni, per esempio: i disegni che nella prima infanzia, fino a 4-5 anni, sono originalissimi, diventano poi omologati: casetta, stradina, albero e fumo dal camino. Questa omogeneità viene poi spezzata dall’imperativo dell’adolescenza: "Sii te stesso".

DIFFICOLTA’ NEL RIUSCIRE A ESSERE SE STESSI
"Sii te stesso" è un compito molto difficile in questa società, che non ha, abbiamo detto, modelli morali mentre di contro, impone una quantità impressionante di modelli estetici. Si chiede ai ragazzi un'opera di autocreazione, gli si suggerisce in modi molto suadenti: "diventa ciò che sei, trova il tuo tipo, la tua strada, il tuo stile, definisci la tua personalità, nessuno ti darà dei contenuti prescrittivi perché tu sai scegliere e creare". In un certo senso è una prospettiva esaltante. Questa generazione ha più possibilità di quanto ne avessero le precedenti, ma anche più difficoltà, perché è molto difficile stabilire chi si è o chi si vorrebbe essere. Di fronte al vuoto, vi è la tentazione di scegliere la via più facile: restare i bravi bambini del proprio papà e della propria mamma, personcine accondiscendenti, obbedienti, che magari non hanno voglia di suonare il piano, ma continuano a farlo perché così vuole la mamma; non hanno nessuna voglia di andare a danza, ma continuano a farlo perché lo vuole il papà. Ecco, questi bambini, figure della dipendenza condiscendente saranno poi, molte volte, degli adulti pieni di rabbia. Gli psicoterapeuti li ritrovano pieni di rancore verso il loro passato, apparentemente tanto felice. Ad un certo punto avvertono che non gli è stato permesso di realizzare le loro vere potenzialità, di essere veramente se stessi, si sentono traditi dalle attese di educatori che, a fin di bene, hanno prevaricato la loro libertà. Questi bambini molte volte raggiungono successi elevati, sembrano molto riusciti, sono dei piccoli Mozart, che in casa continuano a fare tutte le cose per bene, ma in realtà sentono di essere stati uccisi nell'anima. Occorre invece, dice sempre Françoise Dolto, con la sua saggezza della vecchia psicoanalista, che i ragazzi a un certo punto siano in grado di fare qualche cosa che i loro genitori non avrebbero voluto che facessero. La trasgressione moderata, non estrema né impulsiva ma meditata, fa parte del processo di crescita, perché bisogna provare a se stessi che c’è qualche cosa che si può fare, anche se il genitore non sarebbe d’accordo. Molti genitori sono angosciati quando i figli si prendono per amico un extracomunitario e dicono: "Ma possibile che mio figlio faccia una cosa del genere?! C'è in classe l’unico bambino di colore ed è diventato subito suo amico!". Ecco, questi bambini che hanno saputo vivere l’amicizia nonostante, in un certo senso, la delusione dei loro genitori, si dimostrano capaci di diventare se stessi, all’altezza delle aspettative che si sono date, bambini che si sono misurati col proprio Io ideale, non con l’ideale imposto dagli altri e in tal modo sono diventati soggetti. Non soggetti nel senso passivo del termine, soggiogati dagli adulti, ma soggetti di sé, padroni della propria vita, capaci di raccontarsi, di progettarsi, di mettersi alla prova anche attraverso gli errori. Dobbiamo accettare, tra le responsabilità degli adulti, anche che i giovani possano sbagliare. L'Io ideale che i ragazzi si costruiscono, è fatto in gran parte dall’ideale dei genitori, però non è completamente tale, in parte ne differisce, viene rielaborato autonomamente. In gran parte io sono quello che i miei genitori hanno voluto, ma sono anche diverso da loro: una parte di me dipende solo da me. Vi è una capacità di rimodellare le aspettative genitoriali, di porre alla vita domande differenti che fa sì che io sia veramente me stesso e non un calco degli ideali dei miei genitori.

RAPPORTO FRA ETICA, ESTETICA E NARCISISMO
In questa società l'Io ideale adolescenziale è una figura estetica più che etica. Il giovane cerca di essere bello, di fare una bella vita, di avere un'esistenza brillante, circondata da oggetti universalmente approvati. Certo vi sono elementi etici anche in un punto di vista estetico, purché il bello non diventi fine a se stesso, chiuso nell'autoreferenzialità, nel narcisismo, purché la realizzazione dell’io non sia contro o separata dagli altri. Quando l’io e la mia esistenza prevalgono sul senso di appartenenza, quindi sul noi, abbiamo un’estetica che non è morale, che non è etica. Affinché l’estetica sia anche etica, perché una figura sia bella e nello stesso tempo buona, proprio nel senso platonico del termine, bisogna che all’io ideale si affianchi l’ideale dell’io. L’ideale dell’io è quello che rimanda alla società e alla cultura, che dialoga con loro, l’ideale dell’io è quello che stiamo cercando qui. E’ necessario che vi siano queste due componenti: l’io ideale, che è la mia potenzialità come soggetto, e l’ideale dell’io, che è la mia esposizione alla società. L' ideale dell’io è sottoposto alle conferme o alle smentite del mondo esterno. Se ci sono le due componenti, eviteremo tanto l’omologazione agli stereotipi pubblici quanto la chiusura narcisistica ed egoistica sulla propria assoluta originalità. Ammetterò che tante cose mi connettono agli altri, non tutte: non sarò una figura della ripetizione ma della ricerca. Io credo che ognuno di noi sia virtualmente un capolavoro e che nessuno di noi possa essere replicato tecnicamente. Questa è una convinzione che in fondo tutti abbiamo: non siamo riproducibili. L’uomo non conosce né soggiace alla replicazione tecnica, benché si vada verso questa possibilità. Io credo che, psicologicamente, la clonazione non sarà né desiderabile né realizzabile, perché nessuno vorrà rinunciare alla propria unicità e, se anche il suo DNA è la copia biologica di quello di un altro, la sua vita sarà comunque un "romanzo" diverso, in "esclusiva". Di fatto i giovani provano un sentimento di vergogna quando non sono all’altezza dell’ideale dell’Io e dell’Io ideale, quando mancano a queste attese interiori, che parlano, dialogano, dentro di loro.

SENSI DI COLPA E DI VERGOGNA NEI GIOVANI NEL PASSATO E NEL PRESENTE
Nel mondo antico, nellla società tradizionale, il sentimento del giovane che si staccava dalla famiglia era prevalentemente di colpa. Penso ad esempio alla lettera che Kafka scrive al padre: staccarsi dalla famiglia voleva dire distruggere l’immagine del padre, ucciderlo simbolicamente, da qui un senso di colpa molto forte. Ora i nostri ragazzi non risultano schiacciati dal senso di colpa perché, nell'adolescenza, non fantasticano affatto uccidere il padre. Questa figura, ormai sbiadita, non oscura più l’orizzonte come il padre-padrone di un tempo, è una persona con cui si può benissimo convivere senza un’eccessiva ostilità. Il sentimento dominante è piuttosto quello della vergogna: non sono all’altezza delle aspettative che nutro verso me stesso e verso ciò che gli altri si attendono da me. La vergogna è una passione (nel senso di 'patire') assai oscura e complessa perché coinvolge la mente e il corpo, Io e l'altro, l'individuo e la società. Chi si vergogna arrossisce, impallidisce, balbetta e suda, comunque sta male, anche fisicamente. Si sente angosciato nel profondo dell'anima e al tempo stesso esposto allo sguardo dei suoi interlocutori. Difficilmente può nascondersi e celare ciò che prova ma gli risulta anche difficile spiegarlo. Attraverso la spiraglio della vergogna ci è possibile scorgere il legame che la responsabilità intrattiene con il corpo. Nel momento in cui la responsabilità fallisce la sua funzione e si trasforma in vergogna, ci rende trasparenti a noi stessi. In proposito vi riferirò una confessione di Domenico Starnone che, dopo molti anni di insegnamento nella Scuola Media Superiore, attualmente si dedica soltanto al lavoro di scrittore e sceneggiatore. Quest’anno ha vinto tutti i maggiori premi letterari, dallo Strega al Campiello, con un libro bellissimo, che vi consiglio caldamente, intitolato "Via Gemito". E' una storia, scritta in terza persona, ma di evidente ispirazione autobiografica, sui rapporti padre-figlio. Invitato qualche mese fa alla Casa della Cultura, ci ha raccontato un episodio molto intenso della sua adolescenza. Poiché adesso avrà cinquant’anni, dobbiamo riportarci alla Napoli di trent’anni fa, quando frequentava il liceo classico. Vi insegnava un professore di greco famoso in tutta la città per la sua bravura e per la sua severità. Un giorno interroga un allievo e questi sostiene che una parola greca, che secondo il professore è sbagliata, è invece corretta. Il ragazzo ha scritto chronos nel senso di tempo, con il ch e il professore gli dice: "No, si scrive con la k. Il ragazzo ribadisce deciso: "No, sono sicuro che chronos si scrive col ch". Tutta la classe è a favore del compagno: sa che è vero, che ha ragione lui, perché si sta parlando del tempo e non del dio, ma nessuno osa dire niente, finché il migliore della classe alza la mano e dichiara, con la forza del suo prestigio: "Professore, è vero, chronos va scritto con il ch: ha ragione il nostro compagno". Al che il professore si arrabbia da morire e ordina: "Adesso basta, fermi tutti, voi non capite niente: adesso scrivete due pagine di kronos con la k, perché è giusto così". I ragazzi obbediscono. Starnone passa a raccogliere i fogli; lui stesso, benché sapesse benissimo che andava scritto col ch, che aveva ragione il compagno, aveva scritto per due pagine kronos con la k, talmente forte era la paura del professore. Nel raccogliere i fogli si avvede però che il migliore della classe, imperturbabile, aveva scritto chronos col ch per entrambe le pagine. Era dunque possibile resistere e reagire all'intimidazione. A questo punto, confessa Starnone: "provai una vergogna così profonda che non mi basterà la vita per superarla".

LA VERA RESPONSABILITA’ E’ VERSO SE STESSI
Questo aneddoto è importante perché mostra che la responsabilità decisiva è innanzi tutto responsabilità verso se stessi, verso la propria coscienza, verso i propri ideali. Starnone ha capito che aveva tradito ciò che avrebbe voluto essere, che si era comportato in modo acquiescente all’autorità per paura e ha provato quel sentimento di vergogna che da allora in poi fonderà la sua moralità, il suo impegno di educatore e di scrittore. La responsabilità non è qualche cosa che si ottiene così, per dono degli dei ma, come tutte le nostre virtù, costa lacrime e sangue. Nella misura in cui noi ci confrontiamo onestamente con la nostra inadeguatezza, con le nostre mancanze, con la possibilità di venir meno a ciò che avremmo dovuto dire, pensare o fare, allora stiamo costruendo veramente, la nostra responsabilità morale. La responsabiità non è mai acquisita una volta per tutte e si illudeva il giurista di un tempo affermando: "Il padre è il responsabile della famiglia", perché responsabili si diventa e si rischia continuamente di non esserlo ancora e di non esserlo più. Lo vediamo molto bene in situazioni estreme, nelle dittature ad esempio. Qualche anno fa sono andata in Argentina: sapete che, negli anni '70, in Argentina sono spariti trentamila giovani, i cosiddetti "desaparecidos". I primi tempi nessuno ne parlava, io non osavo affrontare l’argomento, tutti in proposito tacevano. Poi, man mano, quando hanno preso fiducia, sono entrati in confidenza, mi hanno portata nell’aula magna dell'Università di Buenos Aires. L’aula era tappezzata dai nomi dei compagni di università che erano spariti e i colleghi che mi accompagnavano (ormai erano adulti), hanno cominciato a piangere dicendo: "Ancora oggi ci interroghiamo sulla nostra responsabilità, ci domandiamo che cosa avremmo potuto fare per i nostri compagni e tentiamo in ogni modo di giustificarci: non li abbiamo cercati perché avevamo paura di danneggiare la loro posizione; temevamo che, cercandoli, li avremmo indicati ai loro aguzzini; forse avremmo potuto fare qualche cosa, ma avevamo paura e tuttora non sappiamo darci pace. Ci sentiamo lacerati tra la colpa e l'assoluzione". Questa generazione di argentini, che si confronta, con un'intensità drammatica da teatro greco, con la responsabilità e l'impegno, ci può insegnare molte cose sulla difficoltà e la grandezza di essere responsabili o, in altri termini, di essere uomini.

RESPONSABILITA’ E’ ANCHE ASSOLVERSI PER RIPRENDERE IL PROPRIO CAMMINO
Credo che, quando una persona si sente responsabile di ciò che è e di ciò che fa, avverte di far parte dell'umanità. La vergogna ultima è proprio quella di disumanizzarci, di cadere fuori non solo dall’umanità del presente ma anche dagli ideali che l’umanità nei secoli si è data: ideali che possono essere religiosi, laici, filosofici, estetici, sociali ma che costituiscono comunque un orizzonte di riferimento che accomuna. Non credo che li raggiungeremo mai ma, grazie alla prospettiva che disegnano, sappiamo se stiamo camminando, dove stiamo andando, se ci stiamo disperdendo, allontanandoci dalla nostra meta. E sempre parlando di vergogna, uno dei sentimenti più oscuri e complessi, abbiamo capito un paradosso: che le vittime provano vergogna, sì, proprio le vittime, quelle che sono tornate dai campi di concentramento, che sono state umiliate, torturate, alla fine provano vergogna di se stesse perché hanno sentito di non essere all’altezza dell’umanità, di essere state avvilite al punto da cadere fuori dal mondo e dalla storia, trascinate in una condizione di abrutimento, ai limiti della bestialità. Nel loro caso la presa di responsabilità, equivale a un autoriconoscimento di innocenza: si devono giustificare sino in fondo, si devono assolvere. Nessuno può farlo al posto loro, la pietà altrui in questo caso non serve. Ma non deve essere facile, come comprova il suicidio che ha chiuso la drammatica esistenza di molti reduci dai campi di sterminio nazista, come Primo Levi e Bruno Bettelheim. Se ho ricordato questi casi estremi è per connettere la responsabilità, non solo alla colpa, come avviene normalmente, ma anche alla necessità di riparare il male fatto e subito, di salvaguardare ed eventualmente recuperare la dimensione del futuro. E' questo, a mio avviso, il fondamento del rapporto educativo. Il discorso pedagogico fa dell'educazione un corollario degli ideali, ma il lato positivo non basta a render conto della complessità della nostra vita. Educare è anche imparare e insegnare a far fronte al male, al dolore, superare la disperazione, trovare la forza di ricominciare a vivere. Riprendendo il tema della responsabilità, che nel procedere si è disperso in mille rivoli, direi che la responsabilità dev'essere un attributo di tutti i nostri pensieri, di tutte le nostre azioni, individuali e collettive, deve sostenere le nostre scelte tenendo conto dell'alterità, non solo dell'altro che ci vive accanto, del prossimo, ma anche di chi ci è lontano nello spazio e ci succederà nel tempo. In ultima analisi, come anticipavo nella mia fantasiosa etimologia, mi sembra sintetizzabile nell'espressione: "portare il peso delle cose". Per chi volesse saperne di più:

Silvia Vegetti Finzi:

Storia della Psicoanalisi
Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme
Il bambino della notte. Divenire donna. Divenire madre.
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A piccoli passi. La psicologia dei bambini da 0 a 5 anni
I bambini sono cambiati. La psicologia dei bambini da 6 a 10 anni
L'età incerta. I nuovi adolescenti
tutti editi da Mondadori

Psicoanalisi al femminile
Psicoanalisi ed educazione sessuale (con Marina Catenazzi)
Storia delle passioni
editi da Laterza

con altri
Se noi siamo la terra. Identità femminile e negazione della maternità. il Saggiatore
Io donna e madre, Le Paoline
Un saggio mi ha detto. Il nostro futuro in quattro incontri (a cura di A.Cecchi Paone) il Saggiatore