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I valori nell'epoca del disincanto

Prof. Salvatore Natoli
Sabato 19 ottobre 2002

La trascrizione della conferenza non è stata rivista dal relatore.
In questo incontro si è fatto riferimento in particolare a due libri di Salvatore Natoli:
La felicità di questa vita, Mondadori, e Stare al mondo, Feltrinelli.


A titolo di introduzione cercherò di mostrare quello che unisce questi due libri e i temi che sviluppano.
Partirò da Stare al mondo, proprio da un breve commento al titolo di questo libro: Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente.
Il mondo è da concepire non solo nei termini dello spazio-mondo, del luogo dove ci troviamo allocati, dove in senso stretto siamo posti, per molti versi addirittura destinati, perché nessuno ha deciso di nascere, si è trovato ad essere al mondo, quindi nell’essere al mondo c’è una dimensione spaziale; ho però usato termini come posti, allocati e questo comporta anche un momento in cui si è posti al mondo, quindi una definizione spazio-temporale.
Stare al mondo, vuol dire stare in un certo spazio del mondo e in un certo tempo del mondo, per cui il nascere non è solo occupare uno spazio ma trovarsi dentro a un’epoca, un modo in cui si sente la vita secondo un sistema di simboli, di valori, lo stare al mondo quindi non è fatto solo di luoghi materiali ma anche di luoghi simbolici, è fatto di tradizioni, di culture, di memorie, perché in fondo il passato inerisce al presente, ne costruisce il paesaggio, l’ambito, l’orizzonte.
Lo stare al mondo ha dunque soltanto apparentemente una collocazione spaziale, ma anche il tempo diventa spazio e lo dice il termine stesso perché se noi usiamo la parola epoca, e lo facciamo spesso, usiamo un termine che deriva dalla parola greca epochè che vuol dire metto tra parentesi, è come se il tempo che normalmente fluisce, si raccogliesse quasi in uno spazio. Vivere il proprio tempo, quindi, significa abitarlo. In questo modo il tempo diventa un luogo, ed è un luogo fondamentalmente della memoria e del progetto, il presente quindi si gioca nello scarto tra memoria e progetto.
Qui bisogna già subito dileguare una concezione sbagliata del presente che lo fa coincidere con la mera istantaneità. Fare coincidere il presente con l’istante vuol dire abolire la distensione temporale, ridursi all’immediatezza e questo significa perdere il senso del tempo e quindi perdere il senso dello stesso presente, perché si ha una pura coincidenza con il dato di fatto, si perde la distanza. Ora, ammesso che ci sia un Dio, solo Dio è il puro presente, perché contiene in sé tutto il tempo, ma l’uomo che vuole coincidere con l’immediato, distruggendo la temporalità, non solo non comprende il presente, ma si brucia nel presente, si brucia nell’attimo.
L’unico modo per conquistare il presente è viverlo nell’intervallo che lo costituisce, tra memoria e futuro, tra passato e progetto, ecco perché allora, in fondo, per vivere in modo adeguato il proprio tempo, bisogna per molti versi, andare “contro tempo”.
Il presente, per essere compreso e trattenuto, non deve essere inseguito, perché altrimenti siamo allo strascico di ciò che scorre e non lo tratteniamo mai. E’ questo il meccanismo della moda, e lo vedete nel modo in cui si costruisce la conoscenza, centrata eminentemente sullo scoop, ove il problema non è mai di trattenere il passato, ma di inseguire talmente il presente, fino addirittura ad anticiparlo e quindi bruciarlo prima che accada, nella più assoluta e vaga finzione.
La logica dello scoop ci spossessa dello stesso presente per un futuro immaginario, in questo modo, l’atteggiamento dell’anima, lo stile della vita, è di inseguire la novità e quindi costantemente di sprecarsi con questo singolare paradosso: inseguendo il presente, così come lo si acchiappa virtualmente, lo si perde e quindi non resta passato e quindi, ad ogni momento, noi siamo più ignoranti di prima, perché la conoscenza è memoria. Quando accadono fatti come quelli dell’11 settembre ci sembrano inattesi, mai immaginati, ci dimentichiamo che si tratta di un evento semplicemente immaginabile, bastava pensare che circa dieci anni prima mezza parte del mondo era sparita con la fine dell’Unione Sovietica che aveva liberato energie e colpi di coda in tutto il mondo. Qualcosa ci si poteva aspettare.
Con lo stesso entusiasmo con cui si è plaudito alla fine dell’Unione Sovietica, come se fosse arrivata la libertà per il mondo, sono partite le bombe dall’altra parte.
Il fatto di non meditare su ciò che accade, non conservarselo, vuol dire che tutto ciò che viene, viene inatteso e quando si verifica viene cancellato, sostanzialmente, infatti, l’opinione pubblica ha archiviato l’11 settembre, come ha archiviato la caduta dell’Unione Sovietica e si prepara ad una guerra preventiva che diventa più entusiasmante di quello che è già stato, senza capire quello che è già stato. Capite bene dunque che per trattenere il tempo, l’unico modo, il più acuto, è di andare contro tempo, fermarlo e renderlo tema della riflessione e non seguirlo per passiva immedesimazione.
Partendo da questo punto di vista bisogna quindi riscoprire il valore della memoria per la comprensione del presente, perché senza memoria non si comprende il presente e quindi non si può progettare il futuro. Ecco allora la logica dello stare al mondo: vivere nello scarto tra presente e passato e in questo scarto c’è il soggetto, l’individuo; così come la società, il soggetto non si coglie mai come una cosa. Voi non vedete mai l’occhio, è l’occhio che vede e l’occhio si rivela a sé come vedente, vedendo. Così la mente, che è un’apertura sul mondo: noi pensiamo perché pensiamo il mondo ed è il mondo che ci rivela a noi stessi.
Questo va detto anche per il tempo, quell’apertura vuota che possiamo guadagnare solo nello scarto tra passato e futuro. Se non abitiamo questo vuoto, che poi è una domanda, noi non comprendiamo il tempo, e quindi il modo migliore per comprendere il proprio tempo è l’interrogazione sul tempo stesso, ma voi ritenete che l’attualità soddisfi questo atteggiamento?
L’attualità pensa il tempo come una cosa e quindi lo fa coincidere con quello che semplicemente accade ma se il tempo lo si cosalizza non è.
Vivere il proprio tempo, vuol dire, vivere nella domanda circa il proprio tempo, lo stare al mondo si trasforma immediatamente in “perché sto al mondo? Cosa vuol dire stare al mondo?”. Lo stare al mondo non può essere mai un fatto, ma è un’interrogazione, noi siamo questo.
Sant’Agostino traduceva questo concetto con quella magnifica immagine: Quaestio magna factus sum mihi. (Mi sono reso una domanda immane). In questo domandarsi, il tempo viene problematizzato. Quello che accade non lo si vede come un mero dato, ma si capisce che ha una provenienza e che è gravido di conseguenza, allora l’accadimento diventa un fatto prospettico, è esito di qualcosa ed è l’inizio di qualcos’altro ed è allora cosa fa? Abolisce l’ovvietà, perché di uno stesso fatto si richiede immediatamente un diverso giudizio attraverso la prospettiva da cui lo si considera e lo si guarda.
L’interrogazione sul tempo è anche la caduta dell’ovvio e questo è l’aspetto positivo della parola disincanto, perché il termine disincanto ha una duplice accezione, una positiva e l’altra negativa. Il disincanto nella sua accezione positiva è guardare problematicamente le cose. L’aspetto negativo del disincanto odierno è nello smarrimento del senso del sacro, nel fatto che l’evidenza dei valori è venuta meno e che non si sa a cosa aggrapparsi. Ma noi davvero siamo disincantati nella sua accezione positiva oppure tendiamo a seguire acriticamente qualsiasi pifferaio miri a portarci con sé?
Da questo punto di vista io direi che questo tempo non è il tempo del disinganno ma del grande inganno, cioè dell’inganno banale. Le religioni erano un grande inganno, noi oggi siamo ingannati da molto meno, siamo quindi disincantati o preda di un inganno corrivo e costante?
Dobbiamo reintrodurre il disincanto, cioè reintrodurre il problema, ma introducendo il problema, si introduce immediatamente la responsabilità, la decisione, la scelta, perché se non c’è il problema, non c’è responsabilità, non c’è decisione, non c’è scelta, c’è l’appiattimento sul puro dato di fatto e il rischio più grande della nostra società, nello stare al mondo, è di appiattirsi su ciò che accade, assumendolo come ovvio, ma in realtà, non tutto ciò che accade, per il fatto stesso che accade, è il meglio di ciò che poteva accadere. Come facciamo a sapere che non sia il meglio di ciò che poteva accadere, se non guardiamo cosa sarebbe potuto accadere, a partire dalle condizioni che aprivano queste possibilità? Si apre qui fortemente la gamma della riflessione, dell’interrogazione sul passato, perché il presente è soprattutto lo scrigno delle possibilità, e non si vede questo scrigno di possibilità se non si sta in quello scarto, e in quello scarto l’uomo è domanda a se stesso, è domanda alla società, è domanda circa la propria destinazione o realizzazione. Sto al mondo perché? Per realizzarmi, si spera, altrimenti sono un fenomeno effimero del mondo.
Direi che la tendenza all’autorealizzazione di tutto ciò che esiste non è decisa, non è qualcosa che noi decidiamo, noi vogliamo essere perché siamo esistenza e vita, qui avevano ragione Aristotele e Spinoza: noi esistiamo in quanto siamo una quantità di potenza, perché nulla potrebbe esistere se non fosse potente ad esistere. Noi siamo forza, e in quanto forza vogliamo essere realizzazione, senza deciderlo, se noi non fossimo potenza ad esistere, non esisteremmo, ecco perché la felicità (e qui si apre un’altra grande domanda) non sta nell’acme a cui si perviene, ma nella vita che noi stessi siamo, quindi la felicità è un luogo originario prima di essere una destinazione, se non ci fosse questa forza ad esistere, questa sì preliminare alla vita, perché la vita vuole se stessa, basterebbe poco per morire subito, ma già la resistenza che noi abbiamo nei confronti del dolore è una prova che la felicità è più originaria della sofferenza, sarà meno abituale, ma certamente più originaria, sta prima. Il nulla è un qualcosa che è predicabile solo di ciò che c’è, ma se è predicabile solo di ciò che c’è, ciò che è afflitto dal nulla, può anche superarlo, entro certi limiti, non definitivamente, s’intende.
Dunque noi siamo forza, siamo vita, il problema è come fare in modo che questa potenza che noi siamo, pervenga al massimo della sua realizzazione. Massimo della propria realizzazione è appunto la felicità, la felicità è la vita che perviene al massimo della sua realizzazione. Ecco allora perché, stare al mondo bene, vuol dire valorizzare il tempo che a noi è assegnato per raggiungere il massimo delle nostre possibilità e allora dobbiamo conoscere quello che possiamo.
Non dobbiamo ambire a ciò che non possiamo, perché questo non è ragione di felicità ma è motivo di tormento e quindi la felicità sta nella capacità di crescere e acquisire ma anche nella capacità di abbandonare, di non inseguire quello che per noi è risultante soltanto di una vana ambizione, cioè di un delirio di onnipotenza, quando cioè noi vogliamo andare oltre l’ordine della nostra potenza. Ciò generalmente avviene quando noi non abbiamo messo davvero alla prova la nostra potenza, quindi fondamentalmente l’esercizio della conoscenza di sé è l’elemento fondamentale per pervenire alla realizzazione di sé.
Nella felicità noi abbiamo un modello giusto ma non perfetto, la felicità si presenta con una doppia faccia, una è la più immediata, la più sperimentabile, quella per cui si dice: sono stato felice, perché chi è felice, nel momento in cui lo è, non lo dice. La felicità non ha linguaggio perché non ne ha bisogno, chi è felice non pensa di essere felice, vive la sua felicità. E’ il rovescio del dolore.
Chi soffre si domanda costantemente perché soffre, diventa la sua angoscia, la sua ossessione, chi è felice, sa di esserlo ma non si interroga, perché se si interrogasse, in un certo senso problematizzerebbe il proprio stato.
Quindi la felicità nella dimensione mediamente sperimentabile è più nella forma del sono stato. Come dice Elliot, la felicità in genere è sempre rammemorata, perché quando è vissuta produce linguaggio ma non parla di sé.
Non so se ricordate quella bellissima aria delle Nozze di Figaro in cui Cherubino dice: “Non so più cosa son, cosa faccio, se sono di ghiaccio, se cambio colore, ogni donna mi fa palpitar”. Si tratta di un linguaggio che si produce in quanto si sente un rapporto fusivo con il mondo, nella felicità il mondo non è visto come un ostacolo, ma come un qualcosa che ci ospita, non a caso la felicità è sempre rappresentata come locus amenus in cui la stessa natura si curva sull’uomo per farlo gioire.
Esiste anche una dimensione fisica della felicità, su cui si riflette poco ma che è determinante nella costruzione psichica. Noi molte volte ricordiamo la felicità nel senso che ricordiamo un viaggio, una storia d’amore, eventi che abbiamo scritto nella nostra memoria, ma quando ci si sveglia al mattino soddisfatti e riposati, quando si entra in contatto con gli elementi, la luce, il sole, l’ombra, gli odori, c’è un’espansione dei sensi, c’è una memoria del corpo che si realizza come amore per la vita, come sentimento di piacere di stare al mondo, questo non si scrive, è scritto nella nostra carne.
Il corpo ha la memoria dell’odore, del calore, del vento, della pioggia, ecco perché quando è fuso con la natura si sente felice e la felicità, anche qui, non sta soltanto nell’acme a cui si perviene, ma nell’immemorabile del nostro corpo, per cui noi siamo grati alla vita di stare al mondo.
È chiaro che questo ha fenomeni rafforzativi o regressivi, ci sono, ad esempio, fenomeni di dolore che dicono che la vita è anche rottura, ma poi ci sono anche fenomeni rafforzativi che rilanciano. In questa prospettiva la felicità non è momento ma processo.
Normalmente la nostra pigrizia mentale ci fa pensare alla felicità come momento o attimo e non come progresso e processo, come cioè qualcosa che attiene alla vita intera. Molte volte si tende a far coincidere la felicità con l’attimo. Non sarò io a dire che la felicità non sta nell’attimo e che quando capita di toccare il cielo con un dito ci si sente trasportati, la felicità è il sentimento della propria illimitata espansione, nella felicità c’è questa dinamica di non trovare resistenza rispetto a sé, questo sentimento ci dà l’idea di essere divini, di non avere inimicizie, ecco l’accordo con il mondo, tuttavia noi siamo una potenza finita, e quindi raggiunto l’acme, inevitabilmente c’è la caduta.
La dimensione più elementare per cogliere questo, come sapeva Platone quando parlava della felicità nel Filebo, è Afrodite: l’orgasmo è un modello della felicità, nel senso che si vorrebbe stare illimitatamente all’attimo ma poi si cade, si tratta di una grande metafora della felicità e da qui la tendenza alla ripetizione, perché non resta altro meccanismo, anche se a riguardo si pongono tanti problemi collaterali che però non abbiamo il tempo di affrontare.
Vorrei invece far capire cosa è acme. Quando io rappresento la felicità come acme, mi servo di una rappresentazione, in genere L’abbraccio di Klimt, questo momento grandissimo di espansione e di culmine, poi si cade. L’uomo è felice in questo mondo perché se non conoscesse la felicità non potrebbe essere infelice e questo perché se l’infelicità è segnata dalla perdita, si suppone un possesso. L’esatta formulazione è che l’uomo non è che non sia felice sulla terra ma che non è sempre a quell’altezza, lo sa talmente bene che ricerca questa altezza e l’errore nasce qui, quando, raggiunto l’acme, lo si ricerca cercando di costruirlo artificialmente, allora non si trova la felicità ma si ha l’ossessione della felicità, perché la caratteristica della felicità è di essere grazia, è la felicità che si dona, non siamo noi a conquistarla, è lei che ci prende.
La felicità ha dunque la caratteristica dell’assoluta gratuità, è dono, nella vita corrente noi spesso ci sforziamo di essere felici, ma poi c’è sempre qualcosa che non va, quando si trasforma la felicità da esperienza in meta, molte volte si cerca la scorciatoia di prodursela artificialmente, generando un rapporto surrogatorio con la felicità, meramente sostitutivo, perché alla felicità non si può togliere il carattere del dono. Ma allora se siamo stati felici e vogliamo esserlo nuovamente, il problema è trovare la via più corretta perché questi attimi accadano. Ed è questo il punto in cui spesso gli uomini sbagliano, perché avendo sperimentato la felicità, la spogliano dal suo carattere di grazia, la trasformano in pretesa e cercano di conquistarla artificialmente, impostando in realtà una strategia di disperazione per la quale non saranno mai felici. Ecco perché dico che gli uomini si procurano l’infelicità, mancano di tecnica, non hanno virtù, perché la virtù fondamentalmente è l’abilità o il modo giusto per fare sì che questi attimi accadano, anzi perché felicità diventi una condizione costante dell’anima nella forma della serenità.
Cosa bisogna fare?
Qui il lavoro diventa grande ed è il punto in cui stare al mondo e la felicità di questa vita si intrecciano perché entrano nell’analisi strategica della condotta. A questo punto bisogna avere competenza di sé, cioè creare una sorta di campo magnetico che attragga il dono, non che se lo produca artificialmente, dobbiamo fare in modo che il dono venga perché in fondo noi siamo disposti a riceverlo, lo attraiamo.
Il rapporto non deve essere mezzo-fine, perché posso sperimentare il fallimento, ma vivere la propria vita nella dimensione generale della gratuità, quindi attivare conoscenza, intelligenza, relazioni umane, cioè attivare l’ambito della nostra comunicazione con il mondo creando in tal modo un campo magnetico che genera attrazione e quando meno ce lo aspettiamo, qualcosa verrà.
Dunque tutta la costruzione di sé deve essere centrata sul gratuito, in termini di conoscenza e in termini di relazioni, di rapporti umani, mettersi in rapporto con qualcuno al fine di trarne vantaggio, non mi porterà mai felicità, si sceglie di relazionarsi a qualcuno perché ciò può essere rilevante per la nostra vita, perché può darmi non nel senso immediato del do ut des, ma perché tutta la vita è dono e quindi bisogna donare, poi chissà cosa avverrà.
Questa libertà nei confronti del mondo, questa capacità donativa non egoistica è un movimento attrattivo degli attimi, noi invece abbiamo una visione della felicità selettiva perché riteniamo che ciò che ci serve ci rende felici.
Ciò avviene anche nell’ambito della conoscenza, ad esempio gli studenti spesso studiano poche cose soltanto per superare l’esame. Non c’è la bellezza del sapere e allora non ci potrà mai essere il gusto dell’opera d’arte perché se non ci si crea una sensibilità per le forme, l’occhio e il colore, non sarà mai possibile godere di quel bene, si impareranno dieci cose semplicemente per prendere un buon voto a storia dell’arte.
È necessario liberare tutte le dimensioni, liberare e poi scegliere, perché il discorso dell’autovalorizzazione non deve diventare esso stesso delirio di onnipotenza, questa cosa me l’ha insegnata Goethe che era un grande dilettante, un uomo dalla curiosità straordinaria, si interessava ai più vari temi, e lo faceva con una curiosità libera da preconcetti, con una curiosità inquirente. In Viaggio in Italia, narra un suo viaggio in Sicilia in cui incontra persone che facevano una retorica della crescita siciliana, dell’ellenismo siciliano dei templi, pontificando; lui, invece, osservava le pietre del greto dei torrenti. Non amava la Sicilia retorica che gli presentavano i suoi ospiti, amava la Sicilia che vedeva: i templi quanto il greto dei fiumi, le piante ecc.
In un sonetto molto bello lui dichiara tuttavia di eccellere in un’unica cosa, nella lingua, nel linguaggio poetico. Goethe ci insegna che è giusto avere la massima curiosità, ma anche la curiosità può diventare superficialità; per non essere superficiali bisogna sapere fare bene almeno una cosa, in breve, si può essere davvero curiosi se si è competenti in qualcosa, se invece si è curiosi in tutto, non si riesce neppure ad essere curiosi, non si prende sul serio niente.
Questa è virtù, nel senso etimologico della parola, dove virtù deriva dal greco aretè, radice ars, cioè la virtù come ars, abilità di sapersi muovere nell’esistenza, abilità nel creare e abilità anche nel superare la sofferenza perché in una felicità intesa come processo (e questo l’ha dimostrato magnificamente Leopardi, ma anche Nietzsche), anche l’ostacolo può essere un motivo di felicità, perché la felicità non consiste soltanto, o consiste poco nella sazietà, perché la sazietà per definizione non è un’esperienza di illimitato, la sazietà in genere produce sonnolenza e delusione.

La felicità è sentimento della propria illimitata espansione perché è anche la gloria della vittoria, cioè la capacità di superare l’ostacolo, infatti, c’è una connessione strana tra felicità e dolore perché nella felicità c’è un singolare modo di soffrire, la grande felicità è attraversata da una dimensione di sofferenza, quella del dolore.
L’etica ha questa caratteristica di competenza del proprio desiderio nei modi in cui è fatto e poi se, come ho tentato di spiegare, la felicità è relazionale e quindi è quella dimensione che deve creare rapporti armonici con il tutto, quindi un’armonia di sé con sé, un’armonia di sé con il mondo, un’armonia di sé con gli altri, allora da questo punto di vista, l’etica non coincide con il dovere in prima battuta: il dovere è una conseguenza, è un aspetto.
Normalmente noi facciamo coincidere l’etica con il dovere, ma l’etica coincide, si fonda, con la relazione, nel mio libro, infatti, dimostro questo e lo faccio partendo dall’etimologia della parola etica, questa radice indoeurpea sve, da cui viene in latino soumus, e poi in greco, attraverso una tipologia di affissi e suffissi da sve deriva sia ethos che idios, in molte lingue slave poi derivano da questa radice sve una serie di nomi che significano cognato, genero, cioè nomi di incrocio, non di discendenza, per mostrare in fondo come l’ethos sia una relazione di comunità.
Aristotele formula questo concetto in modo radicale: nessuno esiste per sempre, quindi l’etica nasce dall’inevitabilità della relazione, quindi se è un dovere, non è un dovere come obbligo, ma è una necessità ontologica perché i singoli non possono sussistere nella separazione, infatti idios ha un’accezione negativa da cui viene idiota, l’idiota è fondamentalmente il solitario, il chiuso in sé, lo scemo, perché tra l’altro la relazione è una relazione anche comunicativa, mentre c’è un modo corretto dell’idios, che non è equivalente al volere esistere per se soli, ma è quello di essere padroni di sé, che è una cosa diversa.
L’etica dunque si sviluppa come una tensione costante tra l’appartenere a, il non poter appartenere a, e l’appartenere a sé; il soggetto in quanto vuole essere se stesso, tende a diventare antagonista con l’ambiente, ma questo è un elemento positivo perché lo rende innovatore, quando invece diventa negativo? Quando, da antagonismo con l’ambiente, diventa presunzione di autosufficienza e quindi distruzione e aggressività.
Nell’etica deve esserci una componente di polemos, ma nel senso di essere innovatori, chiedere spazio per sé, ma questo non vuol dire rompere il legame e la società diventa un elemento necessario perché i soggetti “siano”, tuttavia non li può ridurre a sé, altrimenti diventa anonima, anzi, storicamente, lungi dal diventare anonima, è diventata gerarchica, nel senso che ci sono stati pochi che hanno fatto leggi per tutti.
L’etica è dunque in questa tensione costante, di volersi “dentro la relazione”, non contro, e quindi, da questo punto di vista l’etica è tendenzialmente universale, non può essere unilaterale, però è anche storica, perché passa attraverso i destini personali e siccome noi stiamo al mondo, o ci realizziamo in questo spazio e quindi in questa società e in questa comunità, o non ci realizziamo.
Le stesse possibilità della nostra felicità vanno giocate per il miglioramento in generale della società e tra gli atti gratuiti deve esserci anche quello di una politica della felicità, la felicità dovrebbe essere vista come bene pubblico e quindi, non il proprio bene contro il bene collettivo, ma il lavoro per il bene collettivo come un'occasione in più per le nostre private felicità.
In questo cerchio positivo si può realizzare quella che in termini di politica e di politica della felicità, chiamiamo la concordia, e quello che in termini di vita individuale possiamo segnalare con il nome di beatitudine, che è il nome più alto della divina felicità.