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La responsabilità (1)

Alle h 21 del 5 novembre 2001 si sono riuniti i soci del Centro per confrontarsi sul tema della responsabilità.

Viene letto un articolo tratto dalla rivista Viator del mese di ottobre di Libero Vanni, dal titolo:
Non mi prendo responsabilità. Quando le regole del profitto non provocano rimorsi e sensi di colpa.
Nell’articolo di parla di tre casi: l’incidente di Bhopal in India avvenuto nel 1984 quando, dallo stabilimento chimico della Union Carbide, fuoriuscirono tonnellate di pesticidi che uccisero 2500 persone; il caso della Ford Pinto, automezzo che, dalla fine degli anni ’70, ha provocato la morte di ben 500 persone a causa di un difetto di produzione, benché i dirigenti della società fossero stati preventivamente avvertiti dei rischi. Terzo caso: la Nestlé per anni ha continuato a vendere il suo latte in polvere anche nei paesi del terzo mondo, dove le condizioni in cui veniva utilizzato lo rendevano pericoloso e a volte mortale per i bambini.
In tutti tre i casi i dirigenti si sono difesi negando la loro responsabilità nei fatti.

Nella discussione si ricorda che lo stesso atteggiamento è stato tenuto anche dai gerarchi nazisti al processo di Norimberga. Essi sostenevano che eseguivano soltanto degli ordini e che quindi non potevano essere considerati responsabili dello sterminio.

Si osserva che, proprio in epoca di globalizzazione e di diffusione di mezzi planetari come Internet, il comportamento del singolo più facilmente può sfuggire al controllo della legge. A maggior ragione sarebbe necessario interiorizzare il senso della responsabilità e rispondere alla propria coscienza dei propri comportamenti.

Se io passo con il rosso non obbedisco alla legge, ma soprattutto metto a repentaglio la mia vita e quella degli altri, se sono in automobile.

Eppure oggi i comportamenti contrari alla legge si diffondono sempre più. Perché non si rispettano più le regole? Perché in realtà non ci sono più principi morali, è difficile oggi dire cosa è bene e cosa è male.

La legge dello stato spesso non aiuta, soprattutto in Italia, perché è sovente incerta, per cui lascia, a chi vuol disobbedire agli obblighi, molte vie d’uscita, e sottopone, invece, chi vuole essere rispettoso delle norme, a tanti cavilli burocratici più formali che sostanziali, che fanno venire la voglia di sottrarsi alla legge anche a coloro che sono moralmente corretti. La burocrazia quindi è spesso nemica dell’etica.

D’altra parte questi sono gli sviluppi quasi necessari della società di massa, nata, alla metà dell’Ottocento, con la diffusione dell’industria, con l’intento di dare a tutti quello che prima poteva essere soltanto di pochi.
Quando la produzione era artigianale e molto costosa, solo le classi più abbienti potevano permettersi di acquistare. Con la produzione industriale, la massa dei cittadini, nel mondo occidentale, ha avuto accesso al consumo e ai diritti politici.

Oggi però ci accorgiamo che questo processo ci sta portando ad essere “schiavi della libertà”.

Se solo di una marca di Yogourt esistono 32 gusti, forse impieghiamo più tempo a scegliere di quanto dovrebbe essere destinato a una spesa.

Possiamo votare “liberamente”, ma i mezzi di comunicazione di massa sono un potente condizionamento delle nostre “libertà”.

A un certo punto ci si mette a discutere se anche i prodotti dei Discount possano o meno essere validi quanto quelli dei supermercati tradizionali.

Qualcuno osserva allora che per noi Occidentali il consumo è talmente dominante che finiamo con il concentrarci solo su quali oggetti sia più opportuno comprare, se quelli di marca o no. Ci dimentichiamo degli aspetti spirituali della vita, del fatto che siamo nati e che dobbiamo morire, e che forse è meglio che ci interroghiamo su come far rendere al massimo questo intervallo di vita che ci è concesso, anziché concentrarci su cosa e quanto comprare.

Ci si trova d’accordo allora alla fine, sul fatto che anche nelle nostre discussioni, potremmo orientarci sul principio di responsabilità in senso etico, alla ricerca di principi morali più che di regole soltanto, alla ricerca di una spiritualità convinta che non sia puro formalismo. Naturalmente tenendo ben presenti i pericoli dell’integralismo, perché chi delega ad altri la propria spiritualità non è più libero di scegliere e quindi non è neppure più completamente responsabile delle proprie azioni.

Dovremmo individuare una via che ci consenta una vera libertà nel rispetto di principii accolti per convinzione. Vorremmo porci ad esempio il problema della dimensione del sacro, dimensione quasi totalmente occultata nel mondo occidentale, tenendo ben presente che il proporre una riflessione sul “sacro” non significa riproporre i dogmi e gli stili del Cattolicesimo, significa interrogarsi sul mistero che si nasconde nella nostra stessa esistenza e nell’esistenza dell’universo intero.